venerdì
30 Agosto 2024

Messaggio alla città del Vescovo di Como Card. Cantoni, nella solennità del Patrono

Como: città di chi?
Comunità, turismo e accoglienza

Illustri Autorità,
cristiani di Como e fedeli di altre Confessioni,
donne e uomini tutti di buona volontà, cari amici.
Anche quest’anno, come è ormai tradizione, alla vigilia della festa del nostro Patrono ci raduniamo per riflettere sul nostro vivere insieme come cittadini. Vorrei condividervi qualche pensiero che nasce in me dall’ascolto della realtà e dal confronto con alcune persone, a vario modo qualificate a proporre letture e soluzioni per una Comunità più umana e fraterna.
Mi auguro che queste mie riflessioni, orientate quest’anno a scoprire la dimensione turistica della Città, con tutto ciò che implica circa l’accoglienza, possano suscitare un sano dibattito e ulteriori confronti. Nessuno ha in tasca la verità: abbiamo bisogno di aiutarci umilmente a cercarla e a suggerire soluzioni eque. Sono pensieri che, se anzitutto rivolti alla città di Como, non sono però senza stimoli anche per gli altri territori, quali quelli del nostro lago, meta di tanti turisti, come quelli della Valtellina, della Valchiavenna e delle Valli Varesine, abbracciando così, idealmente, l’intera Diocesi, che ha in sant’Abbondio il suo patrono.

La vocazione della nostra città
Ogni città, come ogni persona, trova nella propria storia le tracce di una specifica vocazione. Un grande politico del ‘900, Giorgio La Pira, chiamato “il sindaco della pace”, ha dedicato molte sue riflessioni al tema della Città e così diceva: «Le Città hanno una vita propria, un loro proprio essere misterioso e profondo, un loro volto, una loro anima e un loro destino. Non sono cumuli occasionali di pietre, ma misteriose abitazioni di uomini» (Il ruolo delle Città, Discorso al Convegno dei sindaci di tutto il mondo, Firenze 2 ottobre 1955). In questo dialogo con la nostra Città mi chiedo allora: Como, qual è la tua anima? Quale la tua vocazione? Sei Città di confine e di scambi, via di commerci vicini e lontani, terra di imprese e di incontri, luogo desiderato e tanto visitato, ricca di bellezze, di storia e di natura. Circondata da un incanto che dalle tue verdi montagne si riflette nelle mille sfumature di blu del tuo lago. Secoli di storia e di cultura si possono ravvisare nei tuoi monumenti e nelle tue chiese, nella tua grande e artistica Cattedrale. Città di imprese e di lavoro, di studio e di ricerca. Oggi anche sede di una università giovane e vivace, di tante scuole, del Conservatorio, di Accademie. Città di musei, di teatri e di cinema, luoghi di incontro e di socialità. Città ricca, anche molto ricca, ma non senza le sue contraddizioni. Como, sei anche e soprattutto la tua gente, il tuo popolo. Città dai lustri natali. Donne e uomini di cultura e di scienza, di fede e di storia. Qui nati o vissuti hanno arricchito e reso nobile questa terra. Dalla storia più lontana e fino ai giorni nostri, un lungo elenco di nomi – dei quali ne ricordo solo alcuni – ci parla di genio e di impegno, di coraggio e di estro, di santità e di carità, uomini e donne illustri, laici e religiosi, espressione di un grande popolo creativo, generoso e laborioso. È bene ricordarli alla nostra memoria:
●Plinio il vecchio, scrittore e filosofo, nato a Como proprio 2000 anni fa;
●Plinio il giovane, avvocato, scrittore e magistrato, nato nel 61 dopo Cristo;
●Maddalena Albrici (Como, 1390-1465), badessa del monastero agostiniano di Sant’Andrea a Brunate; Paolo ●Giovio, vescovo, storico e medico, nativo di Como nel 1483;
●il cardinale Tolomeo Gallio, nato a Cernobbio nel 1526;
●Benedetto Odescalchi (1611-1689), divenuto papa con il nome di Innocenzo XI e beatificato nel 1956;
●Alessandro Volta, chimico e fisico, nato a Como nel 1745;
●Giovannina Franchi (1807-1872), fondatrice della Congregazione delle Suore infermiere dell’Addolorata e beatificata nel 2014;
●Cesare Cantù (1804-1895), storico, politico e letterato;
● Teresa Ciceri, donna di scienza, morta a Como nel 1821;
● Achille Grandi, politico e sindacalista, nato a Como nel 1883;
● Antonio Sant’Elia, (1888-1916), geniale precursore dell’architettura moderna;
●Giuseppe Terragni (1904-1943), architetto, massimo esponente del razionalismo italiano;
●Carla Porta Musa (1902-2012), scrittrice e saggista.
Permettete che tra questi grandi inserisca anche due sacerdoti che hanno onorato con la loro vita e con la loro morte la nostra Città: don Renzo Beretta e don Roberto Malgesini.
Ogni città è, infatti, anzitutto il suo popolo. Città, fin dalla sua etimologia, richiama il “cives”, il cittadino, e si definisce così come il luogo dei suoi cittadini, la Comunità di chi la abita. E allora mi chiedo: Como, di chi sei? Dove sei Comunità di Como? Si potrebbe ancora parlare di Città quando questa non fosse più il luogo dei suoi cittadini? Una Città non è di pochi che la possiedono o la governano, ma non è neppure di nessuno. È invece di tutti, perché tutti, come cittadini e cittadine, siamo chiamati a partecipare. Tutti, insieme, a prendercene cura nell’ascolto reciproco e nella collaborazione. Non spazio anonimo, “cumulo di pietre” appunto, ma relazioni, luogo di vita, intreccio di persone. Ecco cos’è una Città, ecco cosa non può rinunciare ad essere.

Como: città a vocazione turistica
Da sempre, ma molto più in questi ultimi anni, questa nostra Città, il suo magnifico lago, ma in generale tutto il nostro territorio, hanno visto crescere, in modo esponenziale, il flusso del turismo. Sono moltissime le persone che, attratte dalla bellezza di questi luoghi, arrivano qui da tante parti d’Italia, d’Europa e del mondo. Tra le vocazioni di Como vi è, non ultima, anche e soprattutto questa: essere Città turistica. È la consapevolezza di vivere in luoghi belli che ci sono dati e affidati come dono e che desideriamo condividere, perché molti altri, insieme a noi, li possano ammirare e contemplare. È la capacità di ogni autentica Comunità di non chiudersi in sé stessa, facendosi capace di accogliere e di allargarsi nell’incontro con chi non è solo “dei nostri”. Ciascun uomo scopre gradualmente la vocazione che gli è propria quando si rende conto di non averla ricevuta in esclusiva, perché gli è stata donata affinché la condivida. E questo vale anche per la vocazione propria della nostra Città.
Questo flusso turistico porta tra noi benessere e ricchezza, occasioni di incontro e di scambi, ma insieme anche il rischio di alcune storture e di vari limiti. Per molti aspetti un tale aumento del turismo si sta rivelando  insostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Non è qualcosa che accade solo qui. In molte altre Città e territori sta accadendo lo stesso fenomeno (si parla ormai di over-tourism o di ‘turistificazione’). Nessuno ha soluzioni facili, per questo non può mancare una riflessione più consapevole e condivisa. Non sono pochi gli appelli, anche autorevoli, che in questi tempi hanno ricordato che un tale fenomeno non può essere solo subìto, occorre invece ben gestirlo e governarlo. Io aggiungerei: anche e soprattutto umanizzarlo! È il compito di una buona politica e di una buona Comunità: prendersi cura di ciò che accade, senza lasciarsene travolgere.
Appare, immediatamente, il rischio di un turismo consumistico, “mordi e fuggi”, che veloce consuma spazi e territorio. Senza tempo, tutto è di fretta e ciò che conta è scattarsi un selfie da pubblicare sui social. Ciò che ci circonda è utile solo come sfondo di una fotografia. Tutto diventa veloce ed effimero come un clic. A questa cultura consumistica ed effimera si contrappone, invece, un’altra idea di turismo: più lento, più consapevole e più rispettoso delle persone, dei luoghi e dell’ambiente.
Chiediamoci: come promuovere una maggiore attenzione ai luoghi culturali e artistici del nostro territorio? Come proporre percorsi di visita ai nostri luoghi storici, ai nostri musei, alle nostre chiese, che siano un reale incontro e arricchimento personale? Come favorire quindi un turismo che faccia crescere non solo i followers, i likes e i guadagni, ma anche l’intelligenza, il cuore, lo spirito? I dati statistici ci parlano di un accesso estivo alla nostra Cattedrale di migliaia di persone ogni giorno: si tratta di cristiani o appartenenti ad altre religioni, o semplicemente cultori dell’arte. Spesso capita che molti ammirino la nostra Cattedrale solo con l’occhio di chi entra in un museo, interessati semplicemente alle numerose opere d’arte in essa contenute. Pur restando affascinati dalla bellezza della sua architettura e dalle opere d’arte in essa conservate, c’è il pericolo che venga sminuita la dimensione religiosa, tipica di questo particolare ambiente. Come vorrei che, con l’aiuto dei volontari, appositamente disposti all’accoglienza spirituale, quanti entrano, anche solo come turisti, potessero scoprire pure il valore e il significato della Cattedrale come Chiesa madre, centro liturgico e spirituale di tutta la nostra Chiesa diocesana! Luogo innanzitutto di preghiera, individuale e comunitaria, di silenzio, di raccoglimento e di riflessione, la Cattedrale riflette visibilmente la nostra intera Comunità cristiana, pur ricca di secoli, tuttora vivente e operosa, che continua ad essere una presenza preziosa e incisiva dentro la storia di oggi, a servizio del bene comune e soprattutto dei poveri. La visita alla Cattedrale di Santa Maria Assunta, così come alla storica basilica di San Fedele (secolo XII) o a questa stessa antica basilica romanica di Sant’Abbondio e a tanti altri luoghi sacri, come può diventare l’occasione per trasformare un itinerario da soli turisti ad un cammino da veri pellegrini, ossia persone che pregano, ispirati dallo Spirito Santo, gli uni per gli altri, nell’armonia delle diversità,
nonostante l’umanità sia oggi ancora preda della indifferenza e della paura dell’altro?
Ancora più radicalmente mi chiedo: questo turismo come può diventare un autentico incontro tra popoli, dove tutti si possano vicendevolmente arricchire, nella conoscenza e nell’incontro tra persone diverse, per storie, culture, religioni, esperienze di vita? Come le ricchezze spirituali dei nostri ospiti possono rivelare o stimolare risorse del nostro Cristianesimo non ancora dispiegate? Accanto a questo primo rischio, ne riconosco altri, parimenti preoccupanti. L’afflusso di questa ondata turistica nella nostra Città comporta un forte aumento dei prezzi delle merci e delle case, fino a rendere il centro Città un luogo a tratti inospitale per i cittadini. Sempre più famiglie abbandonano il centro, dove i prezzi delle case sono inaccessibili e molte abitazioni sono ormai trasformate in B&B per ospitalità brevi dei turisti di passaggio. Molti, attratti ormai da un più facile guadagno, scelgono di destinare così le proprietà del centro. Si pensi che dal 2016 al 2023 il numero delle case vacanze è passato da seicento a oltre quattromila seicento. La Città, però, così facendo, si svuota e, in qualche modo, si sfalda anche la Comunità: più alloggi per i turisti, meno case per i residenti. Questo comporta, non solo nel centro storico, una urgente emergenza abitativa. Con difficoltà si trovano case a prezzi equi e così il diritto ad abitare è messo oggi a rischio per molti giovani, per tanti studenti, per molte nuove famiglie. Per non parlare degli stranieri, che anche quando hanno un lavoro e una stabilità economica, faticano a trovare un’abitazione, talvolta solo per uno strano pregiudizio nei loro confronti. Come sempre, sono i più deboli a soffrire e ad essere messi ai margini. Da molti territori della Diocesi giungono appelli per questa crescente emergenza abitativa. Ancora mi chiedo: come possiamo invertire questa rotta che conduce all’esclusione e non costruisce Comunità? Come promuovere una Città più vivibile e accessibile a tutti, anche a chi ha meno risorse?
Insieme alla questione abitativa, in conseguenza di questo crescere del turismo, si pone anche il tema della dignità del lavoro. Se è vero che il turismo porta lavoro e benessere, ci dobbiamo chiedere con verità se questi vantaggi siano effettivamente per tutti. Ascolto racconti di lavoratori nel settore turistico (spesso giovani o stranieri) sottoposti a ritmi eccessivi, così come a stipendi poco sostenibili per la vita personale e famigliare. Il lavoro non può essere mai sfruttato. Mi domando: come redistribuire più equamente i vantaggi e la ricchezza derivante dal crescere del turismo?
Infine, andando ancor più alla radice delle questioni, mi chiedo se ciò che dobbiamo sconfiggere non è forse proprio questa diffusa e facile tentazione a volerci arricchire sempre di più. Incantati dal mito del guadagno, rischiamo di lasciarci distrarre come da un nuovo canto di sirene e così perdiamo la rotta. Ascoltavo da un sindaco del nostro territorio un’analisi intelligente e sincera: questa continua corsa ad una maggiore ricchezza conduce, alla fine, al disfacimento di molte famiglie e Comunità. A chi nella vita sacrifica tempo e relazioni sull’altare della sola ricchezza da accumulare, giungono sempre vere quelle parole di rimprovero del salmo che dice: “se vedi un uomo arricchirsi, non temere e non invidiarlo, perché quando muore con sé non porta nulla” (cfr. Sal 49).
Ogni vocazione è un dono, ma essa comporta anche dei rischi. Così è anche per la  nostra Comunità a vocazione turistica. L’accoglienza e l’ospitalità non possono essere vissute senza le “virtù del cuore”. Per questo occorrono Comunità più ospitali, non solo aziende specializzate o imprese di persone interessate unicamente al profitto e allo sfruttamento del territorio. Un territorio, occorre ricordarlo, che non hanno prodotto loro, ma che è un bene di tutti, donato da Dio e arricchito dalle generazioni passate. La bellezza e ogni altro bene hanno una destinazione universale. Ogni tentativo di appropriarsi di ciò che è di tutti e di asservirlo ai propri interessi è un peccato e una ferita alla Comunità. Un buon turismo deve, invece, trovare spazi e tempi per valorizzare e non stravolgere l’identità di una Città, di una Comunità, di un territorio. Si cresce insieme solo nella ricerca di una maggiore armonia tra la vita e la cultura dei residenti con la vita e la cultura di tutti gli ospiti. In questa attenzione, le Istituzioni, insieme ai cittadini, sono allora chiamate a coltivare una maggiore e migliore cultura dell’accoglienza che deve essere per tutti. La bellezza di un paesaggio e la ricchezza di una storia e di una cultura appartengono a tutti. Non si può accogliere solo chi è facoltoso ed escludere chi non lo è. Tutti hanno diritto di godere della bellezza del nostro territorio, del fascino del nostro lago, della maestosità delle nostre montagne. Tutti hanno diritto ad avere un posto dove vivere dignitosamente. Dall’Incarnazione di Gesù Cristo in poi, il mondo e in esso tutta la creazione, con la sua bellezza, è la vera basilica dove trovare tracce di Dio.

Per una cultura dell’accoglienza
La cultura cristiana ha sempre promosso bellezza, ma insieme ha offerto anche ospitalità. Nella storia e così anche oggi, non è banale il contributo di riflessione e di valore che la Comunità cristiana può partecipare alla convivenza pubblica. C’è, anche in molte altre tradizioni religiose, così come nella cultura umanistica, una visione sacra dell’ospitalità, che considera l’ospite nel suo valore di persona e non sulla base del profitto che può portare. Registriamo, invece, oggi una contraddizione che è un autentico scandalo: se hai soldi e porti soldi sei il benvenuto e ti metto il “tappeto rosso” anche se sei straniero. I muri crollano e il dio denaro apre ogni porta. Se invece sei, allo stesso modo, straniero, ma senza soldi: torna a casa tua! Cosa offriamo? Ai turisti facoltosi il lusso, ai poveri il minimo e, a volte, anche meno. Sotteso a questo atteggiamento c’è qualcosa di poco umano: non mi interessa chi sei, ma ciò che possiedi o che non hai.
Il messaggio del Vangelo, che è messaggio di più autentica umanità, invita piuttosto ad accogliere ogni persona e, anzi, se si tratta di fare qualche preferenza, questa è da accordare a chi è più bisognoso. In questa diversa logica, più umana, non si guarda all’ospite anzitutto attraverso il suo bancomat, ma si osserva e si incontra il suo volto, riconoscendone la dignità ed ascoltando l’eventuale suo bisogno. Se deve esserci un ospite di riguardo questo è proprio il più povero. Nella sua Regola, san Benedetto dedica un intero capitolo alla virtù dell’ospitalità (cfr. cap 53, Regola di san Benedetto). Raccomanda che ogni ospite sia sempre accolto con la migliore cura. Gli si vada incontro manifestandogli in tutti i modi l’amore, si entri in comunione con lui scambiandosi la pace. Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile. Gli ospiti siano accolti come si riceverebbe Cristo stesso, specialmente i poveri, perché è proprio in loro che si riconosce Cristo in modo tutto particolare.
Non c’è solo la bellezza delle chiese e dei monumenti, ma anche quella di ogni persona che pure merita rispetto, attenzione e cura. Scriveva così un abate dell’XI secolo: «Poco ci importa che le nostre chiese svettino nel cielo, che i capitelli delle nostre colonne siano cesellati e dorati se non abbiamo cura dei membri di Cristo e se Cristo stesso è lì che muore nudo davanti alla nostra porta» (Teoberto, abate di Echternach, sec. XI).
Quale contraddizione, se pensiamo alle folle di turisti facoltosi, mettendole a confronto con le folle dei poveri. Quanto pregiudizio nei confronti di questi ultimi, quanta poca dignità, quanta scomodità di condizioni. Nei riguardi dei migranti, preghiamo e impegniamoci di più, perché alla durezza di ciò che li ha spinti a partire, non si aggiunga il disprezzo di chi non li accoglie (cfr. J-M. Aveline, Il dialogo della salvezza. Piccola teologia della missione, LEV, 2024, pag. 16).
Crescere nell’ospitalità significa abbandonare ogni prospettiva che vede nell’altro una minaccia o un nemico cui guardare con sospetto e rivalità, a volte con pregiudizi e con parole poco clementi. È vero quanto diceva Jean Danielou: «La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo più decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo» (Jean Daniélou, Pour une théologie de l’hospitalité, in La vie spirituelle 367 (1951), pag. 340).

“Tra voi, però, non sia così…”
Un’ultima parola vorrei ora rivolgerla ai cristiani di Como, chiamati ad essere fermento perché il messaggio del Vangelo possa umanizzare l’intera società. In un tempo segnato dalla chiusura all’altro o dal rischio di sfruttarlo, asservendolo solo al proprio bisogno, mi chiedo: cosa significano per noi oggi le parole di Gesù: «Tra voi, però, non sia così»? (Lc 22,26)
In che modo – senza senso di superiorità, ma facendoci cittadini esemplari per tutti – possiamo essere per questa Città un segno di contraddizione? Come aiutare a maturare una cura e un’ospitalità che sia veramente per tutti e non per pochi privilegiati? Come andare incontro all’altro mediante una significativa “vicinanza evangelica”? La prima caratteristica dei cristiani dovrebbe essere il loro modo di stare nel mondo, fatto di attenzioni e di prossimità, soprattutto in un tempo di “globalizzazione dell’indifferenza”, che papa Francesco regolarmente denuncia. Come favorire occasioni di incontro, di amicizia, di scambio fraterno, per conoscere le ricchezze spirituali di chi ci visita e, nello stesso tempo, fare in modo che i nostri ospiti possano scoprire ciò che ci fa vivere? Dio ha impresso in ogni uomo i tratti propri del suo volto. Solo mediante l’accoglienza reciproca e nell’ascolto paziente di ognuno, pur nelle nostre differenze, possiamo rilevare l’immagine che Dio ha impresso in ciascuno. Come promuovere, quindi, un turismo e un’accoglienza dal volto più umano e fraterno?
Risuonano forti per noi quelle parole di raccomandazione della lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb13,2). Una città più ospitale è una città più umana, perché scopre che chi pensavamo essere uno sconosciuto, un estraneo o addirittura un nemico, può rivelarsi, invece, un compagno di cammino, un amico e un fratello. Quanti angeli, messaggeri di Dio, rischiamo di perdere l’occasione di incontrare!
A nessuno, più che ai cristiani, preoccupa il vento cattivo delle parole arroganti, la logica tribale dell’amico-nemico, l’incapacità di accoglienza e di dialogo. Non può non inquietarci una società e un mondo che vede crescere conflittualità e tensioni ad ogni livello. A questo vento cattivo si contrappone l’aria buona dello Spirito che implora ai nostri cuori di custodire e promuovere il dono della pace, a partire dai nostri rapporti interpersonali, dalle nostre famiglie e dalla nostra Città.
Una Città è bella quando rende belli i suoi abitanti e chi vi è accolto. Como è bella quando noi tutti mostriamo il nostro vero volto, ossia quando siamo buoni, belli e veri noi stessi! Quando ci mostriamo profondamente umani, quando diffondiamo tra noi e con tutti il buon profumo dell’amicizia e della fraternità.

Oscar card. CANTONI